Testimonianze
Umberto Eco, 1996, dopo la morte di Marcello
Mastroiarmi era sempre lui, un uomo come noi, e così lo amavamo, per quella sua tenerezza malinconica, per quella sua umanità ironica, per quella sua impalpabile sicurezza tanto che, direi, in ogni suo film egli entrava in scena dando l'impressione di non sapere chi e che casa fosse, e cercava di capirsi a poco a poco mentre diventava il suo personaggio e il suo personaggio diventava lui - ma anche alla fine ci lasciava con uno sguardo ancora interrogativo.
la Repubblica - Venerdì, 20 dicembre 1996 - pagina 1
di EUGENIO SCALFARI
Mastroianni ha dato volto e voce a un altro aspetto della nostra gente, forse ancora più pertinente al carattere popolare di questo paese: l' arte del "non finito", il disimpegno come obiettivo e come conquista, conquista salata per la quale si pagano, sulla scena e nella vita, prezzi a volte assai rilevanti, ma che si persegue per sfuggire alla sovrabbondanza dei sentimenti e delle passioni.
la Repubblica - Venerdì, 20 dicembre 1996 - pagina 2
dall’ inviato LEONARDO COEN
Alain Juppé: "Era il più francese degli attori italiani, univa discrezione, seduzione, humour, a un talento che ha fatto di lui un' eccezionale personalità della seconda metà del secolo".
la Repubblica - Venerdì, 20 dicembre 1996 - pagina 3
di VITTORIO GASSMAN
NON NE NASCONO più, così. Era un uomo pieno di grazia, Marcello Mastroianni, una figura straordinariamente naturale, un artista delizioso, un compagno intelligente e sornione. Ci volevamo bene. Da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, tanti anni fa, si è subito stabilita una complicità, una simpatia assoluta. Ricordo che Monicelli, sul set de ' I soliti ignoti' , ci mandava spesso a quel paese perché a forza di ridere non gli permettevamo di andare avanti. Il destino ha voluto che dopo un po' di lontane e movimentate esperienze in comune ci si dovesse oggi cercare di nuovo mentre ognuno di noi era costretto in clinica, lui per cure e controlli, io per depressione. Nel riprendere contatto, c' eravamo entrambi entusiasmati per un progetto di film basato su due coerenti e ancora bellicosi vecchi, ispirato a ' Il fratello italiano' di Arpino, e ora non mi sogno d' immaginare con chi altro potrei dividere un' avventura del genere. Ho ricordi bellissimi con lui, anche se dovuti a una frequentazione alterna, incostante. M' affascinava il suo carattere socievole, tanto che non l' ho mai sentito parlare male di nessuno. Tranne una volta, e lì condivisi. Avevamo, e forse è facile intuirlo, due temperamenti assai diversi. Ma complementari. Lui era molto incline ad agire di rimessa, di contropiede, con quell' abbandono interpretato più volte come apparente pigrizia, ma in realtà era un lavoratore che non si risparmiava, un attore senza frenesie e avidità. Dotato d' eleganza, e anche di irriducibile senso dell' umorismo. Per me è sempre stato un uomo di prosa nel senso più alto della parola, e un eccellente animale cinematografico. Rammento di come a teatro i versi dell' Oreste diretto da Visconti gli andassero un po' stretti. Era accanto a me nei panni di Pilade. Io maniacale, lui piuttosto in lotta con la lingua alfieriana. Ci ritrovammo ancora uno vicino all' altro nel ' Tram che si chiama desiderio' , io a fare Kowalski, lui Mitch, ma appena io dovetti abbandonare lui risolse impeccabilmente lo stesso mio ruolo. La più profonda confidenza che si stabilì tra noi risale ai tempi del film ' Scipione l' Africano' di Magni: era tormentato sentimentalmente, e in una notte di passeggiate pianse come è solo capace di piangere un uomo vero, integerrimo, vulnerabile. Io ho sempre saputo camuffare. Lui no. Altro che fama da Don Giovanni, cui giustamente lui si ribellava. Eppure era seduttore. Ma amabile, filosofico. Si rendeva conto d' essere schivo, e mi diceva che io avrei dovuto fare il presidente della Repubblica per l' indole mia di leader, di Ariete. Lui giocava su altri campi. Aveva il dono della gradevolezza, della meravigliosa mezza misura. Che ripaga tanto nel cinema. Io ho dovuto fare una trentina di filmacci prima d' essere un po' rilassato davanti alle cineprese. E il teatro m' ha sempre invece indotto a menare unghiate. Ma ora sentivo che avremmo avuto due spiriti più concilianti. In certa sua recente malinconia d' attore affiorava un grande senso del dramma. Non posso dimenticare la scena finale di ' Oci Ciornie' con quel suo pianto, lo stesso pianto che senza ritegno lui m' aveva mostrato in privato quella sera di tanto tempo fa. Ecco. Dietro la sua maschera amata da tutti c' era proprio questo mistero della commozione, un mistero che scompare con lui.
la Repubblica - Venerdì, 20 dicembre 1996 - pagina 4
di MARIA PIA FUSCO
"Forse per le mie origini teatrali, non ho mai sopportato di essere relegato nello stesso personaggio. Dopo La dolce vita mi offrivano sempre il giovane carino con la giacca blu e i bottoni d' oro, in mezzo alle donne, in cerca di avventure più per noia che per vera passione. Perciò ho fatto subito Il bell' Antonio, l' impotente, e poi il marito tradito, l' omosessuale, il prete, l' uomo incinto, l' innamorato della nana, buttandomi nelle caratterizzazioni, come in Divorzio all' italiana o in I compagni...". E tra i film ricorda con particolare affetto Le notti bianche "in cui ero sempre un ingenuo. Ma dopo tanti tassisti - ne ho fatti tre - il metropolitano, il bravo ragazzo, era comunque un ingenuo più sofisticato".
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Ma le persone che più nitide escono dalla memoria, sono quelle della famiglia. Un nonno e un padre "che lavoravano insieme nella bottega da falegname e discutevano sempre, perché nonno perdeva tempo con la sedia di una vicina di casa che non avrebbe mai pagato e mio padre si arrabbiava. Chi non ha conosciuto l' odore del legno, non può sapere quanto sia bello".
la Repubblica - Venerdì, 20 dicembre 1996 - pagina 9
di IRENE BIGNARDI
ROMA - Tra le sue altre mille qualità di grande attore e grande personaggio Marcello Mastroianni ne coltivava una molta rara - tanto più rara nella sua posizione di star mondialmente riconosciuta e nel mondo iattante dello spettacolo: come il suo amico ed alter ego Federico, esercitava l' understatement, la modestia, l' autocritica quasi fossero una tipica virtù italiana. Così diceva spesso che la sua armatura di modestia e di ironia era dovuta a un senso di colpa: recitare era per lui un mestiere troppo divertente per considerarlo un lavoro. E da quando il giovane perito edile aveva lasciato gli studi per le luci del palcoscenico prima e per il cinema poi la sua vita era stata - semplicemente - bellissima.
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Da Gli anni de la Repubblica – Anno 1996