Skip to main content

Letteratura, cinema, coscienza culturale nei ricordi di Marcello Mastroianni

Letteratura, cinema, coscienza culturale nei ricordi di Marcello Mastroianni

a cura di Roberto Salsano
Professore Associato di Letteratura italiana - Roma Tre

 

Parlare di sé nella consapevolezza di una conclusa maturità o addirittura nel presentimento di trovarsi alle soglie del passaggio ultimo comporta non poter eludere le proprie origini e il proprio svolgimento ma anche trascenderli nella retrospezione di un percorso biografico svelato in certi raccordi e passaggi dai quali prenda rilievo una più sottile e profonda trama di esperienza e di formazione. L’attualità del vissuto rievocato può occupare il primo piano d’una inquadratura mentale disposta in modo da non ostacolare il riemergere del passato attraverso un avvicendamento di ricordi privo della cronometria d’una storia evolutiva e pur saldato a una sottesa coesione, bilanciato tra immediatezza referenziale del dato e ripensamento personale. È ciò che avviene nel film-confessione Mi ricordo, sì, io mi ricordo di Marcello Mastroianni, che è anche il singolare romanzo d’una vita fruibile nelle dimensioni del libro, affidato alla lettura di chi lo ripercorre, avendo sotto gli occhi l’edizione di Castoldi e Baldini1, con un’attenzione non solo alle indicazioni di contenuto ma al tessuto narrativo e al valore espressivo del linguaggio.

Già nel preambolo a uno snodarsi più programmatico e puntuale delle sequenze-ricordi, là dove il libro si apre con una folla di rimembranze che affollano la mente del protagonista, la Ciociaria, terra natale, fa breccia tra tanti spunti memoriali sparsi in modo ancora indiscriminato, pervasivo. Questo luogo delle radici appartiene a un passato lontano, ma attualizzato in uno spirito che non esclude qualche nuance d’ironia, secondo un processo di visione di sé e del mondo in questi ricordi variamente esplicata che mentre rispecchia un’autentica vocazione alla conoscenza critica della realtà collima con l’aspetto umanissimo e antiretorico dell’arte di un personaggio il quale ci dice, sempre nel memoriale, e questo è senz’altro un’acquisizione importante per la ricostruzione interpretativa di punti di forza della stessa prospettiva attoriale di Mastroianni  nei suoi presupposti di Weltanschauung e di cultura, privilegia l’umorismo e ideali rappresentativi piuttosto di riduzione dell’ideale, alla Ĉechov, che di amplificazione. D’altra parte si collega, la menzione della terra natale, a un passato subito pronto, anche, a implicarsi nella dinamica di un ricordo che attraverso l’immagine affiorata della casa dei genitori, fuori di ogni venatura ironica, rimarca piuttosto l’eventualità sempre aperta del rapimento immaginativo onirico e quindi svela la latenza potenziale di un senso mitico delle radici, l’archetipo introiettato d’un’ origine profonda anche se sepolta, nel tempo, da varie stratificazioni. Ed anche in questo caso ci troviamo di fronte a un aspetto connaturato, per così dire, al background mentale e di disposizione intima caratterizzante tanta attività di Mastroianni, voglio dire alla disposizione fantastica, all’immaginativa come input di una visione del mondo che si rispecchia, sullo schermo, nella perfetta adesione a tracce stranianti e non meccanicamente fedeli di rappresentazione, e può piegarsi, in sensibile aderenza con certi esiti felliniani, fino a un intreccio di reale e surreale mentre, nel memoriale, si dipana sulla linea, minore ma sottilmente intrigante, di un recupero di fatti già mediato dalla prospettiva affabulatrice.

Fra i primi ricordi, ecco la residenza ciociara e uno sprazzo di vita familiare affacciarsi da un pensiero ed un ricordo tramati, appunto, dalla possibilità di un intreccio fra ironia e saggezza nel compunto esatto degli anni, nella precisazione topografica che collega attraverso lo spazio l’epos alla vita familiare, nel contenuto della sentenza che rovescia i valori:

Mi ricordo che Cicerone è nato nel 106 avanti Cristo, 2122 anni prima di me: però a due passi da casa mia, ad Arpino. Mio nonno ne era orgoglioso: « Vitam regit fortuna, non sapientia», mi diceva citando il nostro concittadino. Poi sospirava; « Eh sì,è la fortuna che regge la vita, non la saggezza»2.

Ecco, anche, ma senza concessioni all’ironia, e piuttosto nell’aura fantastica, il ricordo di un sogno che induce a ricordi in stretta connessione con i genitori e l’infanzia, a testimoniare una genesi dell’attitudine memoriale collocata in quelle zone intime e infantili dell’animo ove le origini sono radicate e incancellabili:

Mi ricordo di un sogno dove qualcuno mi dice di portare con me i ricordi della casa dei miei genitori3.

Se poi il memoriale filmico va valorizzato alla luce di sprazzi rivelatori riguardo l’autocoscienza professionale, la stessa identità ciociara può rientrare nel gioco mutevole delle identità che un attore abituato come Mastroianni a vivere in profondità il proprio ruolo di lucido interprete di parti le più varie sa assumere volta per volta. La formula riguardante se stesso recitata in un dialogo con Fellini che Mastroianni si compiace di citare dal Block notes di un regista, secondo la quale viene designato «Mandrake di Frosinon», rimanda a un’origine mascherata e colorita, allo spirito di humour in cui ogni origine viene dissimulata o camuffata da chi, proprio in quanto vero attore, abbia spirito e fantasia. D’altronde in Mastroianni si può dire che l’origine ciociara si mescola a collaterali modelli di formazione, soprattutto al profilo che immancabilmente gli deriva dal suo essere stato, fin nella prima giovinezza, a Roma e dall’aver svolto, sullo sfondo della capitale, alcune fra le sue più memorabili interpretazioni, in sintonia con tutto un confluire di personaggi di provenienza ciociara nella cinematografia romana fra i quali si annoverano cineasti e attori quali i Bragaglia, De Sica, Manfredi. Ma altre identità interessano profondamente l’autoanalisi da lui condotta intorno alle proprie più remote esperienze. Ecco allora il ciociaro e il napoletano associati a quelli che Mastroianni definisce fra i ricordi più sensazionali, quelli cioè legati al Natale. «Quelle erano le rare occasioni», egli dice « in cui si mangiava molto. Mia nonna faceva una specie di torta, un risotto simile a una torta: dentro c’erano pallette di carne, qualche pisello. Credo che a Napoli lo chiamino ‘sartu’. Essendo noi ciociari, eravamo un po’ un derivato di Napoli »4. Napoli stessa, città verso la quale viene elargito un apprezzamento straordinario poiché fucina di umanità, humour, creatività, rivive forse in un’associazione latente con un forte sentimento di proprie origini ciociare quando dei napoletani viene esaltata una forza che è «nel loro carattere, nella loro tradizione, nella profondità delle loro radici». Il Mastroianni che ora si esprime, è, non casualmente, il Mastroianni che, a suo tempo, ha interpretato il personaggio di Soriano in coppia con Filumena Maturano nel cui stereotipo napoletano si è calata, con forte carattere, quella Sofia Loren la quale altra volta, anche in questo caso con veemenza di carattere, ha rappresentato la Ciociaria vestendo i panni della «Ciociara». E tuttavia lo stereotipo etnico non restringe la visuale inchiodandola sulla specificità localistica del tipo. Il napoletano può incontrare perfino il russo: «Quando si dice che ‘i russi sono come i napoletani’, c’è una verità. Sono pieni di entusiasmo, di esaltazione, di gioia; per poi sprofondare in malinconie tali da riempire di lacrime il piatto che hanno davanti»5. Qui si scorge lo spirito d’intuizione proprio di chi pensa, sotto la specie di una potenzialità di spettacolo, i cangianti volti d’un umano agire, di chi scorge, cioè, una teatralità dell’esistenza stessa e questa teatralità, dobbiamo riconoscere, proprio certo stereotipo napoletano sa rappresentare impersonando la più molteplice casistica del dramma quotidiano. Quanto alla Ciociaria, anche quando è visionata in un suo aspetto più legato alla vita contadina e cioè a un rapporto stretto con la terra, può attingere un’aura, superiore, di fiaba, come avviene in Giorni d’amore, un film che Mastroianni menziona ricordando che è stato da lui girato nella sua regione, a Fondi6.

Certo, non è di poco conto che il ricordo, alluda esso ad un passato remoto ciociaro, o romano, entrambi affacciati ad una stagione aurorale dell’esistenza, atteggiandosi, vagamente, a scavo nel profondo, e scoprendo una gerarchia delle associazioni memoriali, conferisce un primato alle sequenze iniziali della vita, quelle derivanti, proprio, dall’origine:

  

I ricordi più profondi sono quelli legati alla mia infanzia, all’adolescenza;a mia madre, mio padre, mio fratello7.

È in quest’angolatura che intravediamo la terra dei natali. La intravediamo anche, lateralmente, per via simbolica, nel mito della madre: «c’è un personaggio più importante della madre?»8 e in quel fascino della sala cinematografica, idolo dell’infanzia e adolescenza, che è come l’anelito a una protezione nel grande grembo materno, quindi, anche, terrestre: «Quella sala magica, buia, misteriosa! »9. E tuttavia la terra dei natali si può trasporre agevolmente sul piano dei discernimenti e delle affettività coscienti in una saldatura biografico-temporale fra origine ciociara e formazione romana nel segno d’un vissuto adolescenziale conglobante e unitario se pensiamo a quanto l’attore ha detto, riportato da Matilde Hochkofler, sui suoi lontani rapporti con De Sica:

Ho lavorato molto con De Sica prima di interpretare un film sotto la sua regia. Ho avuto sempre con lui un rapporto molto affettuoso, un po’ al di fuori di quella che è la professione. Lo guardavo come uno zio, non sono mai riuscito a dargli del tu, mentre lui mi dava del tu. Era un rapporto, oserei dire, quasi di parentela, forse per via della stessa origine ciociara, quindi era una persona a cui volevo bene, per la quale sentivo molto affetto. A parte l’ammirazione per il regista, c’era un legame che era al di fuori del cinema, associati a fatti proprio adolescenziali; e poi lui aveva questo fisico, questa testa bianca da parente suggestivo, leggendario, uno zio importante10.

Tuttavia, poiché la Ciociaria, o la formazione romana in cui le radici della personalità affondano con caratteri costitutivi più espliciti, appaiono motivi introspettivi recuperabili, nel percorso del memoriale, solo su una tangente, e saltuaria, del ricordare, il miglior servizio che si può fare alla loro valorizzazione in un ricostruito profilo della personalità di Mastroianni sta nello studio in generale del rapporto tra l’io del personaggio e il mondo a lui relazionato in riferimento a certe esperienze, idee, sentimenti, che costituiscono la configurazione stratificata di una personalità intera indipendentemente dal ricollegarsi esplicito, o meno, con un primum ancestrale.

Mi ricordo, sì, io mi ricordo è un discorso filmico singolare e intenso, un sinolo di parola e immagine, letteratura e rappresentazione, in cui Marcello Mastroianni divaga sul filo di una memoria autobiografica che oltre ad essere viaggio nel passato è anche implicita ricerca di un senso dell’esistenza e dell’arte nel quadro di una certa cultura e società, cronaca personale intensa, anche, come cronaca di un’autocoscienza acuta e sensibile, testimonianza d’un distacco critico, pur mai intellettualistico, proprio di chi interpreta, in un metalinguaggio filmico, la propria vita dedicata al cinema in un résumé cinematografico che ne fa, sebbene a spezzoni, la radiografia e la narrazione.

Mi ricordo, sì, io mi ricordo è, in definitiva, film che sbocca nel libro valorizzando una notevole impostazione di scrittura letteraria e di commento critico, e libro che può agevolmente ritornare a film, per conversione intrinseca. Il film ha qualcosa che manca, però, al libro: l’inserimento frequente di sequenze in cui Mastroianni è attore, che rendono alla memoria il suo corrispettivo storico documentale attualizzato come specimina di valenze immaginifiche e spettacolari. Gli affioramenti, comunque, non sono, sullo schermo, irruenti flashback, ma punteggiano il tessuto stesso del ricordo quasi in analogia con analessi narrative. Per certi versi, anche, essi costituiscono l’equivalente di un metalinguaggio filmico che in presa diretta scava nelle strutture d’una straordinaria storia cinematografica mettendola en abyme in parallelo a quanto avviene talvolta nei procedimenti del metateatro e della metanarrativa. E manca, al libro, altresì, quella corrispondenza fra discorso, e primo piano dell’inquadratura la quale ci fa vedere un personaggio, nell’ambiente portoghese, ora seduto di fronte a uno sfondo arboreo, ora in prospettiva di un paesaggio montuoso intravisto in movimento o dai vetri d’una finestra, ora in barca, navigante su una foce fluviale, ora in una vettura che si sposta rapidamente. Proprio la figurazione di un uomo in movimento conferisce un singolare e intensificato accento espressivo al tema memoriale autobiografico in quanto  sovrappone l’immagine di viaggio effettuato al presente all’immagine di un viaggio condotto attraverso momenti e fasi del passato. E’ privo infine il libro di quella forza coesiva conferita al contesto dalle inflessioni della pronuncia si Mastroianni, dal suo gesto parco e suasivo, dalla complessiva performance di un attore che, anche confessandosi, mostra taluni aspetti caratteristici della propria personalità artistica nell’espressione di toni medi e pur tesi emotivamente , antiretorici per definizione, umanissimi e tuttavia non visceralmente patetici. E tuttavia film e libro si corrispondono nel medium d’una dinamica della comunicazione che punta allo svelamento senza ostentazione. Tanto il libro che il film, voglio dire, nei loro rispettivi modi specifici, mostrano spiragli di straordinario «non nascondimento» (il termine heideggeriano si offre , stimolante, a ipotizzare sfumature e orizzonti di complessità)  di una personalità che ritrova la propria passione cinematografica nell’esigenza di conoscere e di sperimentare contrassegnata da una forte convergenza fra il tendere ad un “oltre” proprio del viaggio o dell’allontanamento tanto prediletti da Mastroianni uomo come scopriamo da dichiarazioni dell’autore tra le più vive e sicure del suo discorso (girare un film lo attrae anche perché si scoprono luoghi dove magari non si andrebbe), e quella traduzione del desiderato viaggio o allontanamento spaziale, gia intimamente metaforici, nell’immaginario pure che, costituendo la sede deputata dell’ “oltre” mentale e psicologico, identifica la sfera di proiezione comune tanto alla letteratura quanto al cinema, la loro essenziale metaforicità.

Il grande attore discorre di sé dando vita a quello che era stato, anni addietro, il progetto di un autoritratto e che solo vede la luce nel 1996 in Portogallo dove viene girato sotto la regia di Anna Maria Tatò negli intervalli della lavorazione del film di Manoel de Oliveira Viaggio all’inizio del mondo al quale partecipa lo stesso Mastroianni, a pochi mesi dalla morte. Ma che questo Mi ricordo, sì, io mi ricordo, pino a un certo punto di possa dire autoritratto lo conferma Anna Maria Tatò riferendo sulla idea stessa di Mastroianni di cambiare il titolo da «Autoritratto» a quello definitivo. Annota la Tatò:

Sul nostro ciak era scritto  «M.M. - Autoritratto». Questo titolo è durato finché Marcello , insieme a tutto il resto del materiale, ha visto la sequenza di brevi ricordi a ruota libera che sarebbe diventata il  prologo del film e di questo libero. Allora , ripetendo l’ultima frase della sequenza , mi ha detto:« “Mi ricordo, sì, io mi ricordo”…Perché no? Questo titolo mi piace. “Autoritratto” è troppo rigido, quasi presuntuoso: fa pensare a qualcosa di lineare, ben ordinato; pretende un rispetto quasi cronologico delle tappe della vita. Invece un titolo come Mi ricordo è simile a uno spazio aperto, concede maggior e libertà, anche di dimenticare cose importanti, perché “la memoria è bizzarra, eh? Bizzarra come l’amore”»¹¹.

Il testo di Mastroianni riposa, dunque, su una concezione non lineare del tempo biografico che risalta singolarmente nel testo scritto dove è percepibile lo scarto da certi tradizionali ordini temporali del racconto letterario. Né i ricordi del memoriale, certamente, come tutti i ricordi , l’impronta più vera di una identità secondo il suo professato punto di vista, sono equiparabili a quelle, pur tanto preziosi per  ricostruire la carriera dell’autore, presenti, in notevole copia fino al punto di costruire buona parte dell’intelaiatura espositiva, nella monografia su Mastroianni di Matilde Hochkofler ove domina una diacronia predisposta dall’esterno e manca un nesso edificato dell’interno della reviviscenza. Nonostante una discorsività narrativa che lega certi passaggi sì che, all’inizio di un passo, un’autoironica cordialità di stampo si direbbe sveviano ci introduce nella continuità d’uno scandaglio di se stesso inguaribile fumatore: ‹‹E ora tanto per cambiare, ci accendiamo un’altra bella sigaretta››¹², la frequente immersione in tratteggi storici ed esistenziali della propria esistenza liberalmente giustapposti, onde momenti di vita e di storia interiore appaiono come sequenze autonome distribuite nello spazio virtuale ma non per questo arbitrario di un tempo resuscitato, richiama un avvicendarsi di memoria sia volontaria che involontaria. L’archetipo letterario di siffatta modalità naturalmente si trova in Proust , autore intorno al qual Mastroianni ha rivolto il pensiero con certa meditata argomentazione: subito dopo la prima serie di ricordi che il libro espone nel preambolo egli menziona lo scrittore francese e ne ragiona con particolare impegno raffrontandosi con lui e da lui differenziandosi in riferimento alla concezione del tempo. Da parte nostra aggiungiamo che, oltre a Proust, nel porsi su un versane di disgregazione della coesività ed evolutività temporale può ritrovarsi un avanzato, in termini di inoltrato Novecento, atteggiamento culturale ed artistico. Le strutture modulari tipiche dell’autobiografia, sostenute dall’incontro fra n passato dell’io arcaico e un presente dell’io attuale che retroguarda fatti ricordati analizzandoli e giudicandoli dal proprio terminale punto di vista in una scansione di momenti progressivamente convergenti, sono evitate mentre l’interiorità e i suoi ricordi si protendono come verso un futuro-passato espandendosi, in base a una definizione accuratamente e allusivamente rivelatrice  di un animus disponibilissimo e di una visione del mondo che diremmo alleggerente, in un tempo dominato dalla “bizzarria”, ed è proprio questa formulazione del bizzarro lo spazio in cui probabilmente una modernità ultima, postmodernistica, ha luogo, se ha luogo, di affacciarsi.

Sempre sul tempo, sul proprio tempo vissuto come uomo ma in particolare come attore, Mastroianni dice che egli è si è trovato, nella quotidianità, come fra parentesi.

La singolarità di vivere tra parentesi, di un vivere così definito in base a una percezione temporale stornata da fatti dell’agire pratico e dal principio di realtà, esposta a un avvenire che pone in non cale, appunto la cronaca spicciola, è certo qualcosa che può apparire come bizzarro, ma il motivo semantico insito nella “parentesi”, se vogliamo allargarlo sul piano filosofico, offre una grande suggestione di messaggi intellettuali e teoretici poiché concorda con il fenomeno della epochè che nella teoria della fenomenologia proprio mettendo fra parentesi certe categorie tradizionali allude alla più essenziale profondità dell’essere. Mastroianni si è dato tutto al cinema con l’intima disposizione di chi entra in un assoluto e con la coscienza, balenante da alcune equivocabili affermazioni del suo memoriale, di partecipare a una realtà alternativa. Naturalmente viene esclusa del tutto, in tal modo, una programmazione della propria immagine che adeschi la chiacchiera mondana e si comprende come l’attore polemizzi contro lo stereotipo attribuitogli  di latin lover. Ma, se pur una vita tra parentesi comporta in primo luogo un rifiuto del convenzionale e del razionale, Mastroianni vive nel mondo, si confronta con le tecniche vigenti e le domande di un pubblico, e questi ricordi ce lo fanno presente umanizzando e storicizzando la figura del parlante. Lo stesso ripercorso mentale di se stesso dall’interno di un Erlebnis non impedisce di valorizzare, nella rievocazione, quelle esperienze critiche di intellettuale che accompagnano l’attuarsi di un mestiere professionalmente e sistematicamente esercitato e ridimensionano l’ebbrezza di semplici tuffi nell’irrazionale e nell’estemporaneo.

Il memoriale in definitiva ritaglia dal quadro degli avvenimenti la formula di una coscienza non solo esistenziale ma, pur senza intenzioni o tesi, culturale e politica. Essa può esser messa in rapporto a momenti distinti di filmologia ai quali Mastroianni ha consacrato l’esemplarità di artista finemente interpretativo. Si pensi alle “parti” che l’attore rappresenta in memorabili tappe della lunga carriera rivestendo il ruolo del giornalista, di un personaggio che, in qualche modo, non può non essere, con le implicazioni sociologiche che riveste, un tramite di cultura e dunque un indice di prospettive tipizzanti, storico culturali e sociali, anche se intellettuali da strapazzo come il collaboratore di giornali non certo impegnati rivestendo i quali Marcello interpreta La  dolce vita. Marcello è giornalista; direttore di giornale e intellettuale è Sostiene Pereira (giornalista in crisi è il protagonista di La terrazza). Si tratta di casi fra loro certo eterogenei, ma in entrambi si fa strada un dimensionamento dell’esistenza strettamente correlato al rapporto fra io e mondo sociale filtrato da una presa di posizione intellettuale e morale. Quello che nei due film può risultare di convergente è l’aleggiare d’una messa in questione di quella realtà “infera” che l’esercito professionale porta talvolta davanti alla coscienza e, per conseguenza, una potenziale messa in questione dello stesso ruolo di intellettuale e giornalista in certi contesti come quello, ad esempio neocapitalistico del boom economico in una città quale Roma o quello prefascista in cui è inserito Pereira. Un profondo scontento si impadronisce di Marcello; scontento, pur in maniera diversa, è Pereira. A casa di Steiner Marcello proferisce l’elogio d’un’arte che nella sua perfezione renda un’armonia e un distacco dalla vita esclusa dalla caotica routine contemporanea. Le sue parole sono di una perfetta calibratura dell’intensità comunicativa: dicono, attraverso il vagheggiamento utopico, la sconfitta e la mancanza. In situazione diversa, una scontentezza che sale dal profondo immalinconisce e rende perplesso Pereira, direttore di giornale. I ricordi di Mastroianni comunicano qualcosa che può richiamare, per vie mediate, certe sfumature di queste interpretazioni d’attore quando evocano tutta l’ammirazione provata per Ĉechov. Ĉechov simboleggiando una coscienza della necessaria riduttività delle visioni totali sul mondo, prefigura la situazione di un artista moderno al cospetto d’ una realtà del quotidiano che si mostra limitata o deforme o imponderabile e soggetta a una presa d’atto sostanzialmente sterile, alla pena e al rimpianto di un’alterità impossibile nel crollo della concezione eroica e idealistica. Il sottile understatement che caratterizza la grande arte espressiva del gesto e della recitazione di Mastroianni nelle parti del suo vasto repertorio, ovviamente, nelle quali più può esprimersi un abito psicologico e mentale ad esso compatibile, trae da questa confessata preferenza artistico letteraria una possibilità di isolarsi come momento criticamente operante all’interno di un mestiere che non si riduce meccanicamente a tecnica, ma che esige, accanto alla tecnica, una posizione e un intervento attivo di intelligenza e di orientata sensibilità.

Tecnica e sensibilità hanno avuto indubbiamente un loro supporto nell’apprendistato teatrale per il quale l’attore è, fin dagli inizi, passato. Non sarà stato ininfluente l’esercizio duro e proficuo al quale lo ha spinto, ai primordi della sua carriera, un regista come Visconti, sotto la regia del quale l’interpretazione di Le notti bianche può considerarsi l’esito di una calibrata canalizzazione nel dominio della forma di una struggente e patetica umanità colta attraverso i toni minori di un dramma piccoloborghese all’incrocio fra realismo ed evasione onirica. Il  memoriale di Mastroianni attesta, in aggiunta a ciò che può registrare lo spettatore da tanta  sua produzione filmica, voglio dire alla evidente perizia dell’attore formatosi attraverso un tirocinio sul palcoscenico, una coscienza esplicita del valore artistico e culturale del teatro e delle sue leggi di rappresentazione. L’attore cinematografico, osserva Mastroianni, «Non recita con tutto il corpo, al cinema; a teatro sì». Mastroianni predilige una visione dell’arte della recitazione come arte che a livello di espressività e comunicazione sia integrale: fisica, anche corporea, tale che solo sulla scena può realizzarsi. Di fronte al teatro, il cinema è su un piano inferiore. La metafora usata per indicare i due fenomeni, che designa il teatro come tempio e il cinema come calderone sembra riportare Mastroianni alle polemiche seguite all’avvento del cinema, e colpisce che un suo ricordo tutto impostato sul raffronto fra l’uno e l’altro genere di spettacolo termini con una sequenza tanto laconica quanto fatalisticamente allusiva d’uno stato di cose che si commenta sa sé: «si gira». La riflessione  ha un termine tanto perentorio quanto eloquente in modo formalmente analogo, anche se non nello stesso grado di negatività, al romanzo pirandelliano I quaderni di Serafino Gubbio Operatore. Nonostante, però, il suo giudizio di un passaggio storico dal teatro al cinema come di una fondamentale degradazione, Mastroianni si concilia con il cinema e le sue potenzialità artistiche. Egli coglie precisamente ciò che in realtà riteniamo possa essere in linea con la valorizzazione della virtualità espressionistica del cinema, voglio dire una dimensione eccentrica del figurale che l’inquadratura in primo piano può inaugurare superando la mimesi naturalistica cioè un tipo di rappresentazione, se si vuole, suscettibile di mistificata obiettività. In definitiva la preferenza data al teatro per il privilegio che solo il teatro concede alla totalità espressiva del corpo, ma nello stesso tempo il tributo alla magia del cinema che allarga infinitamente la possibilità dei ruoli eseguibili, conferma quanto l’attorialità cinematografica di Mastroianni affondi in una concezione aperta, e rivolta ai più diversi orizzonti della realtà sociale poiché sullo schermo può trovar posto tutto. La sua concezione postula però, come inderogabile, una decisa bravura tecnica di cui il teatro e la sua severa educazione forniscono la base più rigorosa e umanamente impegnativa, non certo approssimazioni superficiali. Sembra giusto, comunque, che Mastroianni ponga l’accento sul peculiare fattore magico del cinema anche poiché, integrando le sue osservazioni con un giudizio in generale sulla tecnica di comunicazione, possiamo osservare che quel fattore è per certi versi necessariamente tale nella misura in cui l’illusione del mondo propiziata dallo schermo è integralmente fittizia e in questo peculiare senso magica mentre quella che offre il palcoscenico poggia almeno sulla visione reale di un corpo reale di attore, con gesti e fisionomie colte nel momento della loro attuale presentazione. E però non solo la magia, ma anche il gioco tanto caro a Mastroianni, trae origine da questo dato strutturale di fondo, e l’aver percepito tutto il valore di gioco dell’atto cinematografico ha comportato, oltre l’affermazione di personali e particolari scelte estetico-interpretative, una intelligenza radicale ed essenziale del cinema in quanto tale. Un cinema, d’altronde, che, pur nutrito per statuto dell’anima della fiction, non incorra in quella degradazione nella quale Mastroianni vede immersa, senza possibilità di indulgenza, la televisione contemporanea, idolo polemico la cui presenza incisiva nel pensiero dell’attore non sorprende chi lo ricorda interprete dell’ironico e meraviglioso film felliniano Ginger e Fred. Essere nel moderno, anche nel postmoderno, ma con la possibilità di critica e distinzione: è ciò che, mi sembra, concorre a fare di questi ricordi un testo non solo legato al privato o alla moda, ma aperto, almeno entro la potenzialità di suggerimenti di uno svolgimento ulteriore dei motivi e temi trattati, alla discussione estetica, culturale, politica.

Tuttavia, al di là d’una Weltanschauung costituita, al di là d’una ricchezza culturale sistematicamente strutturata della quale lo stesso Mastroianni con, forse, qualche modestia e dissimulazione, si dichiara sprovvisto senza però che ciò impedisca al destinatario, magari un lettore o spettatore “di secondo grado”, di rintracciare, nel libro-film, un orizzonte culturale nel quale si iscrivono sentimenti, opzioni, gusti e un rapporto dinamico, non piatto, con la contemporaneità, Mastroianni stesso è consapevole che una precisa istanza di ritmo e, in certo senso, di montaggio ispira la genesi di Ricordo, sì, io mi ricordo. Proprio ripetendo l’ultima frase della ruota libera di ricordi che costituisce il prologo del film, come ricorda la Tatò, Mastroianni ha deciso di sostituire al titolo Autoritratto un titolo che quella frase ripetesse alla lettera. Una vera e propria illuminazione ideale e psicologica è stata determinata dalle parole dette per ultimo, dalla loro coesione e ritmo fonico denso di allusività semantica, dalla pronuncia significante nella quale si comunica l’imponderabile dell’evento interiore e della sua immediata comunicabilità. Ricordo, sì, io mi ricordo, nasce, così, da un’irruzione, sul tempo-memoria, che porta già i segni, imprevedibile e bizzarra a suo modo come il tempo stesso nella concezione che ne ha Mastroianni, di due polarità della poetica cinematografica ove trova la propria specifica identità il grande attore, trasformistica e vitalisticamente giocosa.

Una polarità è certa tendenza all’immaginario come fondamento libero dell’esistenza. Mastroianni, contro ogni piatto naturalistico, vi si è adeguato perfettamente entrando in contesti filmici che del naturalismo hanno violato la legge di coesione narratologica e deterministica: basti pensare alla ricchezza panoramica non costituita in unica peripezia romanzesca ma tendenzialmente frammentata di La dolce vita dove l’episodicità delle vicende dà risalto a un dispersivo e disancorato fluire vitale-collettivo che si offre alla recherche di Marcello nel leitmotiv di fondo di una molteplicità di facce e situazioni sostanzialmente autonome, connesse tra loro solo nella coscienza fluida della percezione che le coglie. Il Marcello della «dolce vita» assiste ai vari spettacoli di una Roma splendida e insieme sordida nella situazione del coinvolgimento e pur nella distanza di un rapporto con qualcosa di epifanico, ove ha gioco il misterioso e l’imprevedibile e lo scivolamento in zone che si direbbero al di fuori del tempo.

L’altra polarità è nella figurazione dell’arte del cinema come gioco in senso non semplicemente edonistico (senso pur tuttavia rivendicato, in questo stesso memoriale, a volte, contro eccessive enfatizzazioni di un cinema serio) ma in un senso in cui par intravedere un modo di porsi verso la realtà non solo coerente, in fin dei conti, con ciò che rappresenta per Mastroianni lo specifico della tecnica attoriale, ma anche coerente con la possibilità, specifica, di un recupero di quella dimensione ludica che contrassegna l’apertura dell’infanzia al mondo, infanzia la quale ritorna più volte, non per nulla, nei ricordi e non inerisce ad un ambito di semplice regressione mitica, ma può collegarsi alla prospettiva di un inquadramento, lucido e trepido, di una personale, istintiva e innata capacità immaginativa e fantastica, di uno spiccato desiderio del nuovo, del peregrino, dell’eccentrico.

Non ci meravigliamo, certo, che Mastroianni spezzi una lancia a favore di una concezione del lavoro dell’attore come di qualcosa non gravabile da troppa arcigna serietà o addirittura tragica immedesimazione al dolore della vita, quando pensiamo che la sua prima attività teatrale e cinematografica si è presentata nell’alone, poi cresciuto, in qualche misura con lui stesso, dell’attore brillante. Ma facendo luce sui parametri di «gioco» nei quali, in questi ricordi, egli individua una personale prospettiva attoriale, c’è da chiedersi se Mastroianni non mostri un nesso implicito della propria esperienza, tale da sollevarne la vocazione a dignità di prospettiva storica al di là dell’istinto innato o dell’opportunismo commerciale, con aspetti di una costellazione culturale e artistica del Novecento lontana per progetto dalle pretese di un impegno militante esplicitamente formulato e tuttavia non assoggettata al consumo, orientata verso una postmodernità che attraverso la crisi di certezze assolute rispecchia, nella concezione e nella prassi di una creatività avvinta ai mille rivoli di una fruizione non tendenzialmente ordinata, e di una testualità come ludus, combinazione, collage, una per così dire “leggerezza dell’essere” che possa però tramutarsi agevolmente in allegoria dell’essere o, secondo una tendenziale politicità, in allegoria d’uno status sociale. Proprio da questa disposizione prende vigore la comprensione piena, di Mastroianni, della quale il memoriale ci conferma, in talune dichiarazioni, la lucidità, riguardo a quei risultati artistici espressivi nei quali si afferma il passaggio da un genere stilistico all’altro, dal comico al tragico. Un parziale distacco dalla immedesimazione non può che favorire, diciamo, quello slittamento da un genere all’altro che rappresenti una modernità molto avanzata, che porti al “bizzarro” o al grottesco e non contrasti con una parodizzazione interna all’intertestualità nella quale si dispiega una lettura dell’odierno universo dei segni. Intertestualità, ed ironia che da essa può generarsi nei modi della parodizzazione, non sono parametri artistici e conoscitivi estranei all’universo cinematografico in cui è entrato Mastroianni se si pensa, ad esempio, a quel luogo di Intervista dove l’attore ripete sulla falsariga di La dolce vita le solenni parole rivolte alla Ekberg sulla donna chiamata luna, terra, madre, con effetto deformante e, come risulta da una sua dichiarazione riportata da Hockofler, con pieno consenso dell’attore. Quanto poi a riferimenti storici più lontani, il non coinvolgimento totale dell’attore nella sofferenza del personaggio, dichiarato esplicitamente da Mastroianni, non sembra portare a un teatro brechtianamente didascalico, l’edonismo puro della rappresentazione e un senso di mistero ritrovato nell’illusione di cambiarsi nei più vari personaggi assediando troppo vivamente la concezione del cinema alla quale egli si mostra legato, ma il «non coinvolgimento»come viene espresso nelle sue dichiarazioniè certamente altra cosa dalla vicina a noi futilità e acriticità della produzione massmediale, dallo spirito pubblicitario della comunicazione “spazzatura” dato che il “gioco” a cui pensa Mastroianni è un gioco assai distante dal gioco proposto dal programma commerciale. Al gioco si intitola una trasmissione quale «Giochi senza frontiere» e pur non seduce il nostro critico che la reputa , senza mezzi termini, cosa stupida. Egli rivisita, piuttosto, il teorema diderottiano del paradosso dell’attore, anche se evocato non come norma imposta, e neppure in dipendenza di una teorizzazione filosofica, ma sotto la luce dell’istinto e della vocazione, adeguandolo alla ricerca del piacere che tuttavia non comporta una intenzionale banalizzazione dei contenuti:

Recitare è un piacere, è una grande emozione. Perché uno fantastica, racconta delle fiabe, a volte divertenti, a volte tragiche – ma non essendo mai veramente coinvolto13.

Si noti comunque che il ludus e  l’affabulazione affioranti in queste frasi, cardini, se vogliamo, di un alleggerimento del moderno in direzione della postmodernità, non escludono una dichiarata «grande emozione» che filtra la stessa recitazione come gioco. È come se nel “gioco” fosse introdotta qualche approssimazione a un modello dell’attore più che diderottiano, stanislavkijano, per l’equilibrio di tecnica e pathos, autocontrollo e “reviviscenza”, a cui si avvia una recitazione filtrata dal sentimento, pur Mastroianni personalmente non apprezzando molto il tecnicismo del regista russo teorico della reviviscenza come rivela una sua idea, molto netta, che, cioè, la compenetrazione fra attore e personaggio non sia garantita da alcun metodo ma come da un atto d’amore verso la creatura nella quale ci si trasforma sul set. Certo la «grande emozione» che può irradiare il “gioco” è uno spiraglio su un versante particolare dell’identità artistica dell’attore, su un versante di profonda concentrazione morale e sentimentale, nella cui cornice può allignare il patetico e la malinconia. La carriera di Mastroianni conferma proprio come siano stati vitali e proficui certi cambiamenti della sua prassi attoriale fin dalla prima fase della sua attività nel senso dell’interiorizzazione del personaggio, dovuti all’accoglimento di ruoli borghesi o piccolo borghesi che vengono a sostituire il ruolo popolare e il suo stereotipo popolarescamente ingenuo. Filtrare  l’emozione nel gioco significa infine riagganciare il carattere del film come finzione assoluta poggiante su quella riproducibilità tecnica dell’opera d’arte che ne contraddistingue la differenza dall’atto teatrale, a una verità dell’esistere come sentimento vivificante l’immaginazione in termini di memoria, nostalgia, riflessione lirica, terreno fecondo per il patetico e la malinconia.

In conclusione gioco e malinconia attraversano il tracciato dei ricordi illuminando una straordinaria vitalità di attore prestata a moduli oltre che comici, altamente patetici e d’una malinconicità che raggiunge un suo grande effetto in Sostiene Pereira. Il memoriale rimanda, abbastanza direttamente, al quoziente di umanità e di trasfigurazione artistica che nel film si riflette permeando un modello vitale essenziale analogo a quello riversato, con qualche singolare consonanza, proprio, anche, in Ricordo, sì, io mi ricordo.  La  stessa ripetitività del  ritornello «sostiene» che scandisce un perenne monologo meditativo del vecchio Pereira può vedersi in parallelo al ripetersi del ricordo che si solleva a sigla emblematica dell’atteggiamento meditativo nel titolo che è, a suo modo, anch’esso un ritornello: «Ricordo, sì, io mi ricordo». La splendida inquadratura finale del personaggio tabucchiano rappresenta un uomo in movimento tra la folla, su quella terra portoghese nella quale si trova ora Mastroianni nel film delle sue confessioni, in viaggio verso nuovi orizzonti di vita nel sentimento di una consapevolezza etica e civile che ha coraggiosamente rotto col conformismo e l’autoritarismo fascista ma non ha eluso, anzi ha vivificato la potenzialità di una memoria che risale fino alla giovinezza in una trepida mescolanza tra sogno, ricordanza, racconto, quei termini stessi di un intreccio vitale e sentimentale che punteggia lo snodarsi di Ricordo, sì, io mi ricordo.

Ricordo e immaginazione pervadono l’animo di Pereira. Ricordo e immaginazione stimolano il discorso di Mastroianni fin nel finale, dove si trova una citazione di Kafka nella quale la brevità della vita è pensata con l’accento della consapevolezza insita nel ricordo:

C’è un bellissimo racconto di KafKa, Il prossimo villaggio« Mio nonno soleva dire: “…La vita è straordinariamente breve. Ora, nel ricordo, mi si contrae al punto che per esempio io quasi non riesco a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo fino al prossimo villaggio, senza temere che perfino lo spazio di tempo in cui si svolge felicemente la vita, possa bastare anche lontanamente a una simile cavalcata” » 14.

L’identificazione con il pensiero kafkiano è evidente:

Quand’ ero giovane mi sembrava che la vita fosse lunghissima, eterna. Adesso invece, quando guardo all’indietro, mi accade di dire: «Ma quel film, quando l’abbiamo fatto? Cinque anni fa?” »

«Ma che cinque anni fa! Quindici anni fa. » « Quindici anni fa?»15.

L’adesione ai motivi di pensiero e di stato d’animo esemplificati da un brano letterario, ciò che significa anche affinità con l’immaginario nel quale si esprime la scrittura di un grande scrittore, si ammanta di malinconia. Mastroianni ora ha 72 anni. La macchina da presa inquadra sequenze di una festa tra amici fra i quali l’attore dissimula una patina di tristezza mostrandosi ancora vitale, pronto a nuove realizzazioni di sé. Ma, subito dopo, la cinepresa lo focalizza nell’atto di recitare il passo kafkiano sulla brevità della vita e non sembra esserci soluzione di continuità nel tono della voce e nel profondo, filosofico-esistenziale, che in esso vibra  tra la citazione e il commento. Comunque ha un significato il fatto che la malinconia ispirata dalla fugacità del tempo, che lo stesso Mastroianni rende viva e palpitante come in parole di congedo, trovi il suo appiglio per effondersi proprio in un passo dove le malinconiche verità sono dette da un nonno. Ricordiamo le prime pagine del memoriale. Viene cioè in mente la figura del nonno evocata da Mastroianni, fra i primi ricordi che hanno attirato la sua memoria, nell’atto di recitare una formula disillusa sulle vicende della vita attinta dall’antica cultura dell’arpinate Cicerone, introdotto alla familiarità d’un orgoglio paesano nella cornice ciociara. Ricordo e malinconia, senso dell’origine e pensiero della fine trovano così il luogo più adatto per esaltarsi nell’immaginazione della simbolica cavalcata che Mastroianni sviluppa sulla scorta dello scrittore ceko:

  Da giovani, quando si sale a cavallo per compiere questa cavalcata, si pensa che sarà un viaggio che non avrà fine, lunghissimo! E poi invece, raggiunta una certa età, ci si accorge che questo «prossimo villaggio»  non era molto lontano; che veramente è stata una cavalcata breve, brevissima!16

Questa sigla d’un resoconto personale con l’immagine d’una cavalcata mostra come, fino all’ultimo, Mastroianni pensa, sente e vive, totalmente, nel figurato movimento, nell’espressione tipica, insomma, dell’atto cinematografico, e nello spirito profondo di un’idea, dell’idea del viaggio, dell’allontanamento visto sotto il profilo della scelta e, insieme, del destino, stereotipi che contrassegnano l’essenza di una vita dinamica che può essere intesa simbolicamente oltre che materialmente come migrazione perpetua, il cui modello archetipico trova oggettivamente un parallelo storico nel distacco tipico dell’intellettuale meridionale dalla provincia, e se non, presso il nostro attore, nelle vicende d’un precisato pendolo biografico tra dimora ed esilio, nel ritornante rapporto, a tratti emergente fra i suoi ricordi, con una vagheggiata dimensione del vivere che è infantile, ludica e fantastica, e nella quale la sua Ciociaria può trovare pregnanti corrispondenze sul piano di una biografia magari inedita e in palinsesto.

Come all’inizio del memoriale così alla fine si impone un ritmo interiore che però, in questo caso, dilegua. L’eco deriva da antichi discorsi sapienziali simili a quelli che avranno avviato, presso il giovane ciociaro, la formazione di una cultura e di una sensibilità umana trapassate via via, nel tempo, dall’infanzia e dalla prima giovinezza, una giovinezza che si proietta sul fondo semplice e grezzo del personaggio-tipo cinematografico quale «l’ingenuo tassista metropolitano», alla maturità che vede affermarsi la coscienza della condizione labile della vita. La consapevolezza più fonda è maturata tra lo scetticismo, il relativismo e la malinconia esistenziali dopo un affinamento dell’intelligenza di chi è giunto, come a un proprio “doppio” estremo, alla riflessività dolente ma non eticamente spenta di un Pereira. Nel ricordo ultimo, svariante tra Kafka e personali consuntivi, la biografia individuale come parabola dell’essere da un alfa ad un omega sembra trovare il proprio senso, confermato da una tradizione popolare, in un nulla come destino universale, ma anche additare un riscatto di realtà proprio in questa labilità del “positivo”. «Siamo fantasmi che vengono dal buio e nel buio se ne vanno», mormora la controfigura del celebre ballerino Fred interpretata da Mastroianni in Ginger e Fred, ma il fantasma artistico, strappato da una parentesi di informe buio nella luce dell’esistenza reale, può diventare più reale della realtà, per dirla con giudizi di Pirandello riferiti all’apparizione dei sei personaggi piovuti sulla scena come da una sfera indefinita anch’essi, parenti alla lontana di Ginger e Fred, coinvolti, pur a loro singolarissimo modo, nell’ambiguità dello spettacolo d’una vita-finzione. Si può dire che Mastroianni, non eludendo ma trasfigurando il carattere transitorio dell’esistenza e il suo tendenzialmente nichilistico e pur meraviglioso essere possibilità cioè essere attesa del futuro in un modo da lui avvertito per cui fin la nostalgia gli sembra diventare, sono sue parole, «nostalgia del futuro», ha sperimentato la libertà e mutevolezza infinita del proprio lavoro d’attore e, più in generale, il valore allusivo e non meccanico della mimesi artistica, il suo connotato ludico trascendentale, in definitiva la sua radicalità immaginativa e visionaria che porta a fingere e, insieme, a scoprire l’esistenza.

*************************

Note

1 M. Mastroianni, Mi ricordo, sì, io mi ricordo, a cura di F. Tatò, Milano, Baldini e Castaldi 1997.

2 ivi, p.13.

3 ivi, p.14.

4 ivi, p.104.

5 ivi, p.79.

6 ivi, p.67.

7 ivi, p.40.

8 ivi, p.101.

9 ivi, p.32.

10 M. Hochkofler, Marcello Mastroianni, Roma, Gremese 1992, p.70.

11 M. Mastroianni, Mi ricordo, sì, io mi ricordo, cit., p. 157.

12 ivi, p.42.

13 ivi, p.90.

14 ivi, p.150.

15 Ibidem.

16 Ibidem.

 

Subscribe to Our Newsletter: